lunedì 13 gennaio 2014

Sui discorsi banalotti tenuti da alcuni idoli letterari a varie cerimonie di conferimento di lauree o diplomi e altre considerazioni a margine

Nelle università degli Stati Uniti c'è questa abitudine di invitare qualche pezzo grosso alla cerimonia di conferimento delle lauree. Il pezzo grosso si presenta, forse sorride, sale sul palco e fa un discorso ai neo laureati. Il discorso, immagino, dovrebbe servire a dare dei consigli, degli insegnamenti di vita, insomma, a ispirare le giovani menti dei giovani ex-studenti che si apprestano ad entrare nel cosiddetto mondo dei grandi. L'abitudine è talmente consolidata che questi discorsi hanno un nome. Si chiamano commencement speeches.

Diversi di questi commencement speeches sono diventati piuttosto famosi, e io voglio soffermarmi qui sui discorsi che sono stati preparati e tenuti da scrittori affermati.

Iniziamo da David Foster Wallace, che ha tenuto un acclamatissimo discorso alla cerimonia di consegna delle lauree al Kenyon College in quel di Gambier, Ohio, il 21 Maggio 2005. Ora, il punto è che David Foster Wallace è uno dei miei idoli letterari assoluti. Ho letto Infinite Jest due volte consecutive e lo trovo uno dei libri più belli, forse il più bello, che abbia mai letto. Considero David Foster Wallace un genio, un fuoriclasse assoluto che giganteggia nel paesaggio della letteratura Americana contemporanea.

In altre parole, se non si fosse capito, i libri di David Foster Wallace mi piacciono parecchio.

Ed è per questo che non appena qualcuno mi ha parlato di This is water, che sarebbe il titolo di questo celeberrimo discorso da lui tenuto a Gambier, mi sono precipitato a cercarlo. E l'ho trovato. E l'ho letto. E ci son rimasto malissimo.

Ci sono rimasto malissimo perché mi è sembrato retorico, auto indulgente e francamente anche un po' banalotto.

L'idea di scrivere un post sui discorsi fatti da scrittori affermati a cerimonie di conferimento di lauree mi è venuta leggendo questo post nel quale Ilenia Zodiaco recensisce l'ultimo libro di George Saunders e cita il discorso da lui tenuto ai neo laureati della Syracuse University nel 2013, definendolo splendido.

Per carità, il mondo è bello perché è vario, e i gusti sono gusti, eccetera eccetera, ma a me, dopo attenta lettura, nemmeno quel discorso è piaciuto. E non mi è piaciuto più o meno per gli stessi motivi elencati sopra a proposito di Wallace.

Dopo aver letto i commencement speeches di alcuni affermati scrittori (Wallace, Saunders, Gaiman), penso quasi che sia possibile ricostruirne una struttura tipica, che li accomuna. L'autore solitamente inizia con qualche battuta o spiritosaggine, facendo spesso leva sulla propria (vera o presunta) vecchiaia, sul sentimento di inadeguatezza nei confronti del ruolo di vecchio saggio che illumina giovani menti, eccetera eccetera. In alcuni casi (si veda il discorso tenuto dal non-so-proprio-come-mai-piaccia-così-tanto Neil Gaiman alla University of the Arts nel 2012) il pezzo grosso inizia il discorso dicendo addirittura che lui l'università mica l'ha fatta, anzi, è scappato da scuola non appena ha potuto!

Insomma, l'inizio di questi discorsi resta spesso sulla stessa linea. Un fintamente imbarazzato e probabilmente poco convinto: "che cosa ci sto a fare qui?".

Dopodiché i discorsi (mi riferisco ora ai tre discorsi che ho nominato fino ad ora) proseguono, a mio avviso banalotti e pallosetti, per culminare con quello che dovrebbe essere l'insegnamento che illuminerà, o per lo meno guiderà i giovani animi degli oramai ex studenti, che diventano quindi i depositari di profondissime verità del tipo:
"Siate più gentili",
un consiglio che, francamente, qualsiasi madre non degenere sarebbe in grado di dare ai propri figli (col valore aggiunto della sintesi: la qualsiasi madre di cui sopra impiegherebbe molto meno di un'ora per arrivare al punto).


Chiariamo una cosa. Con questo non voglio minimamente sminuire i meriti (quando ce ne sono) degli autori citati. Voglio solo riflettere sul motivo per cui persone ritenute illuminatissime (alcune delle quali a ragione) si ritrovino a raccontare (almeno a mio avviso ) delle banalità.


Allora mi sono messo a pensare ad autori affermati che si siano ritrovati a dover dare consigli e che (sempre a mio avviso)* non abbiano detto banalità.

Iniziamo da Kurt Vonnegut, che è un altro dei miei idoli letterari. Mi vengono in mente almeno due situazioni in cui abbia dispensato consigli. Le prima è l'introduzione della sua raccolta di racconti Bagomgo snuff box, dove elenca otto regole per scrivere una short story. Eccole:
  1. Use the time of a total stranger in such a way that he or she will not feel the time was wasted. 
  2. Give the reader at least one character he or she can root for.
  3. Every character should want something, even if it is only a glass of water. 
  4. Every sentence must do one of two things—reveal character or advance the action.
  5. Start as close to the end as possible.
  6. Be a sadist. No matter how sweet and innocent your leading characters, make awful things happen to them—in order that the reader may see what they are made of.
  7. Write to please just one person. If you open a window and make love to the world, so to speak, your story will get pneumonia.
  8. Give your readers as much information as possible as soon as possible. To heck with suspense. Readers should have such complete understanding of what is going on, where and why, that they could finish the story themselves, should cockroaches eat the last few pages.
The greatest American short story writer of my generation was Flannery O’Connor (1925-1964). She broke practically every one of my rules but the first. Great writers tend to do that.

Queste regole mi sono sembrate impeccabili. Soprattutto per il fatto che sono regole da non prendere troppo sul serio. E soprattutto anche per il fatto che mi hanno fatto prima sorridere, e poi ridere.

È chiaro che in questo caso non si tratta di un commencement speech, quindi forse il paragone con Wallace, Saunders etc etc è un po' azzardato, però resta il fatto che un elemento di differenza netta tra i consigli di Vonnegut e quelli di Wallace and Co. è una naturalezza, una leggerezza (tornerò più avanti su questo concetto), una trasparenza che Vonnegut trasmette e quegli altri invece no.

Non so se riesco a spiegare bene che cosa intendo. Ma l'impressione che ho è che Vonnegut non si prenda troppo sul serio. E che lo faccia in maniera serissima.

Un altro esempio di questa cosa che non riesco bene a spiegare è quest'altro consiglio, sempre di Vonnegut, rivolto a chiunque voglia mettersi a scrivere:
Here is a lesson in creative writing. First rule: Do not use semicolons. They are transvestite hermaphrodites representing absolutely nothing. All they do is show you've been to college. And I realize some of you may be having trouble deciding whether I am kidding or not. So from now on I will tell you when I'm kidding.
Non è fantastico? Sì, è fantastico. È Vonnegut.

Bene. Prima di passare all'ultima (o penultima, ancora non so) parte di questo lunghissimo post, vi confesso di aver cercato su google kurt vonnegut commencement speech e di aver scoperto che proprio l'anno scorso è uscito il libro If this isn't nice, what is? Advice for the young, che altro non è se non una raccolta di commencement speeches di Vonnegut! Il titolo, If this isn't nice, what is? è una frase del commencement speech tenuto da Vonnegut alla Syracure University (la stessa del discorso di Saunders…) nel 1994. Il discorso si trova su internet. L'ho letto. E mi è piaciuto. Leggetevelo anche voi.

Ed ora, per confondere le acque, vi parlo dell'altro autore affermato che secondo me si è ritrovato a dover dare consigli (o immaginare di dare consigli) e lo ha fatto senza dire cose banali. Si tratta di Italo Calvino. Altro mio idolo letterario. Il punto è che quello che afferma Calvino si trova assolutamente agli antipodi di qualsiasi cosa pronunciata in materia da Vonnegut, ma nonostante questo mi sembra un punto di vista assolutamente non banale, e forse anche condivisibile. [Il che mette in luce con crudele chiarezza quanto sia confuso chi scrive queste righe…].

Calvino, interpellato a proposito della diversità tra vecchi e giovani rispose così**:
La cosa che potrebbe avvicinare di più le generazioni è il confronto degli errori compiuti, ma è una esperienza che non si può trasmettere perché ogni generazione deve fare i suoi errori. Quello che distingue di più è la parte positiva che ogni generazione porta con sé, ma questo è per sua natura incomunicabile, perché appena si cerca di enunciarlo diventa retorica.
E poi aggiunge:
Chissà che la migliore soluzione non sia diventare un vecchio molto antipatico. Io credo che ci potrei riuscire senza molto sforzo, magari anche accentuando i caratteri di repulsività della vecchiaia, diventando un vecchio astioso, malefico, un po’ ripugnante, un po’ bieco. In questo modo potrei provocare nei giovani una reazione di bellezza, pulizia, di allegria. Forse sarebbe l’unico modo di raggiungere un risultato socialmente positivo, che nessuna pedagogia può sognarsi d’ottenere.
Insomma, leggendo queste frasi se ne evince che a Calvino non sarebbe piaciuto troppo dover fare un commencement speech (e che ai malcapitati neo laureati sarebbe piaciuto ancora meno ascoltarlo).

Ad aumentare la mia confusione, e a mandare sempre più alla deriva questo post (eccessivamente lungo), c'è il fatto che Calvino, aspirante vecchio antipatico, e predicatore della repulsività della vecchiaia, ha scritto quel meraviglioso testamento letterario che sono le Lezioni Americane, dove elenca le qualità che la letteratura del prossimo millennio (il nostro) dovrebbe possedere. Le Lezioni Americane avrebbero dovuto essere tenute all'Università di Harvard, cosa che non avvenne a causa della morte di Calvino. Non posso fare a meno di pensare che le lezioni fossero indirizzate a dei giovani. Ai giovani (era il 1985) che avrebbero visto perlomeno l'inizio di quello che era il prossimo millennio. E immagino che chiunque abbia letto le Lezioni Americane converrà con me sul fatto che Calvino non possa di certo essere definito un vecchio antipatico, astioso, malefico e ripugnante. Anzi.

Ed è forse la prima delle Lezioni Americane di Calvino, quella dedicata alla leggerezza, che descrive impeccabilmente quello che avrei tanto voluto spiegarvi poche righe fa quando vi ho copia-e-incollato stralci di scritti o discorsi di Vonnegut invocando naturalezza, trasparenza e soprattutto leggerezza. Questa qualità letteraria così difficile da spiegare e impossibile da insegnare.
Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta- filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite.
Ecco. Credo proprio che il punto sia questo.

E ora, per concludere queste caotiche riflessioni precipitandole definitivamente in una sconfortante inconcludenza, vi ricordo che anche Vonnegut, il grande Vonnegut che tanto ho decantato in questo post, in un suo libro (God bless you, Mr. Rosewater) ha consigliato la stessa identica cosa che Saunders (ebbene sì, il Saunders che ho qui criticato e definito banale) ha consigliato ai neo laureati di Syracuse, ovvero: siate gentili. Ma lo ha fatto così:
There's only one rule that I know of, babies — "God damn it, you've got to be kind".
che è indubbiamente tutta un'altra cosa.


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* Da qui in poi la smetterò di dire "a mio avviso" ecc. quando dico che qualcuno scrive cose banali e/o pallose.
** Sono nato in America... Interviste 1951-1985 (Mondadori)

giovedì 9 gennaio 2014

Il magico mondo dei fisici

Oggi mi sono ritrovato a pranzo con dei colleghi che non conoscevo fino a, per l'appunto, oggi a pranzo. Eravamo una decina. Tutti fisici o astrofisici. Quasi tutti nerd.

Al mio angolo di tavolo c'erano: (a) un tedesco con capello lungo, felpa di pile, scarpe da trekking e postura ingobbita e (b) un tizio tutto pulito, con la camicia stirata, educatissimo, di provenienza ignota (lo ha spiegato ma mica ho capito… giuro che nella spiegazione ha menzionato Lussemburgo, Arizona, sud della Francia e Londra) ma con chiaro accento british, e con una incongruissima coda di cavallo.

Ci sediamo e, assieme ai nostri culi sulle sedie, cala subito anche un gelido e imbarazzato silenzio.

Io sono uno socievole, ma a volte proprio non ce la faccio. A volte, se la situazione è proprio disperata, posso anche decidere che va benissimo pranzare in silenzio e pensare ai fatti miei.

Quindi fisso per un po' il bicchiere vuoto, fino a che, qualche minuto dopo, il tizio tutto pulito e di provenienza ignota richiama la mia attenzione dicendo: "So!". 

Lo guardo e ha un sorriso tutto pulito stampato sul volto.

"So!" dice, per poi aggiungere, un po' a scatti "What. Would you like. To talk. About?".

"The weather" rispondo prontamente. 

Perché io sono uno che sa stare in società.