Ricordo ancora il giorno in cui pensai, per un istante, che la rivoluzione proletaria avesse portato il comunismo al potere.
Ero a Venezia, e all'aeroporto la signorina al banco delle informazioni mi aveva detto che il modo più facile per arrivare al mio hotel, a Rialto, era prendere il vaporetto. C'era il sole, e sul ponte del vaporetto la gente guardava Venezia. Poi una svolta nel Canal Grande e ci ritroviamo circondati da bandieroni rossi con tanto di falce e martello. Bandieroni che garrivano al vento con dietro il cielo blu. Ce n'erano dappertutto, lungo entrambi i lati del canale. Rossi.
Ricordo che mi guardai attorno, eccitato, e mi stupii di non riscontrare alcuna reazione sui volti dei miei compagni di vaporetto. Nulla. Possibile che il comunismo avesse raggiunto il potere nelle poche ore in cui ero in aereo, isolato dal mondo, e che quelle poche ore fossero bastate ad assuefare la gente al nuovo ordine da così poco costituito? Il vaporetto accostò proprio in mezzo a quel tripudio marxista, e fu per me un po' deludente leggere su un enorme striscione: "Festa di Liberazione", e capire che lì non si stesse affatto cambiando il mondo con la rivoluzione, ma più che altro si stesse cucinando salsiccia. In gran quantità.
In quel periodo vedevo una psicoterapeuta. Nel senso che ero in cura da, non uscivo con, una psicoterapeuta. Il mio problema era legato alla gente*. Una irrazionale claustrofobia accessoriata da mal di stomaco in situazioni affollate e senza via di uscita. Frau B., un sorridente donnone teutonico, nonché mia psicoterapeuta, si era messa in testa che io non parlassi abbastanza con la gente. "Devi parlare con la gente! Vai in un bar e parla a uno sconosciuto!" mi ripeteva.
Però non è per niente facile parlare a uno sconosciuto mentre dentro al tuo cervello c'è una voce, martellante, che grida: "Devi parlare a uno sconosciuto devi parlare a uno sconosciuto devi parlare a uno sconosciuto devi ecc ecc ecc". La difficoltà per me non era tanto parlare a uno sconosciuto, credo, ma era il farlo perché dovevo farlo. Perché sentivo di doverlo fare. Perché qualcun'altro mi aveva detto di farlo ed ora aspettava una risposta da me. Aspettava che gli dimostrassi qualcosa**. E la situazione, quella sera stessa, alla Festa di Liberazione, era proprio quella. Avevo mangiato la mia bella salsiccia leninista, e me ne stavo in mezzo alla gente, odiandola tutta, con in mano il mio bicchierone di plastica con dentro birra. Studiavo con disprezzo i possibili target, ma non sapevo decidermi. Mi sentivo un cretino e mi sembrava non avesse alcun senso mettersi a parlare a caso con qualcuno solo per dimostrare a una tedesca cicciona e con una pettinatura improbabile*** che ero capace di farlo.
Insomma, a un certo punto lasciai perdere. La smisi di cercare target per i miei approcci. Ero lì, in mezzo alla gente, a far finta di guardare il palco dove dei luridi e puzzolenti fricchettoni**** picchiavano sui loro lerci bonghi. Guardavo fisso di fronte a me. Sguardo torvo. Bicchiere di plastica con dentro birra tenuto rabbiosamente in mano. Eccetera.
E fu proprio a quel punto che sentii, vicino al mio orecchio sinistro, un "ciao!". Mi giro e trovo una ragazza, bionda, avrà avuto qualche anno in più di me. Anche lei tiene in mano un bicchiere di plastica proletario con dentro birra. È un po' sciupata e decisamente un po' brilla.
Non ricordo nemmeno di cosa parlammo, a parte Napoli, dove lei aveva vissuto, amandola e odiandola.
Poi tornai al mio hotel, riconciliato con tutti, Frau B., gente, marxisti, leninisti e persino fricchettoni, e mi addormentai subito.
__________
* Sì, è anche colpa tua!
** Chiaramente erano tutte seghe mentali. Frau B. dormiva sonni molto tranquilli e non aspettava alcuna risposta da me e men che meno voleva le dimostrassi qualcosa.
*** In realtà provo tanto affetto per Frau B., davvero.
**** Non ho nulla nemmeno contro i fricchettoni. Ma in quel momento sarei riuscito a irritare anche il Dalai Lama.